20 dicembre 2006

Il muro colpisce ancora.

In questi giorni la stampa profonde a piene mani notizie sulle violenze, i rapimenti e le uccisioni conseguenti allo stato di guerra civile che cova in Palestina all’indomani dell’annuncio (rectius, della minaccia) di elezioni anticipate da parte di Abu Mazen.
Violenze che purtroppo sono costate la vita, tra gli altri, anche ai tre figlioletti innocenti di Bahaa’ Musbah Ba’lousha, un ufficiale dell’intelligence palestinese vicino al Presidente dell’Anp.
Ma, come sempre avviene in questi casi, qualche notiziola rischia di passare in secondo piano e di non meritare neanche due righe nella rubrica esteri dei quotidiani italiani, soprattutto se si tratta di una notizia che potrebbe mettere in cattiva luce Israele.
E’ il caso dell’ultima prodezza del glorioso esercito israeliano, che ieri ha ucciso una ragazzina palestinese 14enne e ha ferito la sua amica di 12 nei pressi della cittadina di Tul Karm, nel West Bank.
Secondo il resoconto ufficiale dell’Idf, è successo che i soldati di guardia nei pressi del muro di “sicurezza” hanno notato due figure “sospette” che si avvicinavano alla barriera, ad una distanza di circa cento metri, ed hanno aperto il fuoco senza alcun preavviso né esitazione.
Ha trovato così la morte la povera Da’ah Abed al-Kadr, 14 anni, deceduta durante il trasporto in ospedale, mentre l’amica che l’accompagnava – la 12enne Rasha Shalbi – è rimasta gravemente ferita.
Nulla di nuovo, per carità, si tratta dell’ennesimo, barbaro assassinio di un Palestinese inerme ed innocente, la cui unica “colpa” è stata quella di essersi troppo avvicinato a quella che gli Israeliani chiamano “barriera difensiva”, ma che in realtà è un muro di segregazione che, talvolta, diviene un vero e proprio "muro della morte".
Abbiamo già tante volte discusso di episodi come questo, dei crimini di guerra commessi da Israele nei Territori occupati, del silenzio della stampa, di quello delle ong di tutela dei diritti umani e dell’intera comunità internazionale, della quasi totale impunità concessa ai soldati di Tsahal nell’uccidere i Palestinesi anche al di fuori di ogni scontro armato e di ogni possibile minaccia per le truppe stesse.
Impunità che equivale a licenza di uccidere.
Non sfugga peraltro, che, anche ove si voglia derubricare l’episodio come una sfortunata “casualità” o un semplice “errore”, si tratterebbe pur sempre di una grave violazione del diritto umanitario.
Un principio fondamentale in questa materia, infatti, vuole che ogni parte in conflitto distingua tra combattenti e civili che non prendono parte alle ostilità, e che gli attacchi contro i civili siano assolutamente proibiti; in caso vi sia dubbio se una persona sia un combattente o un civile disarmato, si dovrà presumere che egli sia senz’altro un civile e ci si dovrà regolare di conseguenza.
Cosa che, palesemente, in questo caso non è avvenuta.
Anche questa volta, come sempre, l’esercito israeliano ha promesso che aprirà un’inchiesta, inchiesta che, come sempre, si chiuderà con un nulla di fatto o, al massimo, con una lievissima condanna per l’eventuale colpevole.
Secondo i dati forniti dall'ong israeliana B'tselem, dall'inizio della seconda Intifada al 30.6.2006, su 3.185 Palestinesi uccisi dall'esercito israeliano ben 1.722 erano civili disarmati e che non stavano in alcun modo partecipando ai combattimenti (si tratta del 54% del totale!), a fronte dei quali si sono registrate ben 7 condanne, un vero record!
E tra queste condanne, solo una comportava una pena detentiva pari a 20 mesi, mentre tutte le altre erano assai più lievi, inferiori – tanto per fare un esempio – a quelle comminate agli obiettori di coscienza.
Verso i primi di dicembre, un soldato israeliano – per aver ferito gravemente allo stomaco un ragazzo palestinese ad un check-point – è stato condannato ad una pena detentiva di ben … 14 giorni!
Aspettiamo con ansia di vedere se e quanta galera faranno i macellai israeliani in divisa che ieri hanno ucciso una povera ragazzina palestinese.

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19 dicembre 2006

Un aiuto ai prigionieri politici palestinesi.

Ricevo tramite l'amico Mauro Manno, e pubblico volentieri, questo importante appello di Luisa Morgantini.
Care tutte e tutti,
poco tempo fa vi avevo inviato una richiesta di sostegno economico alla Campagna Free Marwan Barghouti, che molte e molti di noi conoscono e hanno incontrato negli ultimi anni. La Campagna essendosi sempre sostenuta con lo stipendio da parlamentare di Marwan e altri, versa in grandi difficolta' economiche per via del trattenimento illegale delle entrate doganali palestinesi da parte di Israele e per via del blocco dei fondi imposto all'Autorita Palestinese dall'Unione Europea, che da oltre 10 mesi lascia senza salario migliaia di dipendenti pubblici palestinesi.

Marwan Barghouti, tra i leader di Fatah eletto al Consiglio Legislativo Palestinese nel 1996, viene arrestato il 15 Aprile 2002, e da allora e' in carcere. Oggi il dibattito sulla sua liberazione e' ritornato al centro del tavolo delle trattative per lo scambio dei prigionieri discusso tra Israele e Autorita' Nazionale Palestinese dopo il rapimento del soldato israeliano Shalit. La Campagna in questo senso si sente ottimista. Ma hanno anche bisogno di strumenti concreti per lavorare. Perche' nelle carceri israeliane vi sono 10.700 prigionieri politici palestinesi, di cui 380 minori al di sotto dei 12 anni e 110 donne. Dal 1967 ad oggi 750.000 persone sono state detenute nelle carceri israeliane, il cui 50 per cento sono uomini tra i 16 ed i 40 anni.

Una proposta, perche' questo Natale non regalate la ricevuta di versamento alla Campagna Marwan Barghouti e i prigionieri politici palestinesi? Sostenere la campagna e' anche l`appoggio alle famiglie dei prigionieri i cui capifamiglia sono incarcerati, oltre ad essere quello della liberazione dei prigionieri politici ad uno dei punti chiave nell'agenda politica per una qualsiasi pace giusta e sostenibile tra Palestina ed Israele.

Vi inoltro di nuovo lo schema inviatomi dal coordinatore della Campagna Saad Nimr, cosi' come la prefazione che ho scritto per il libro di Musolino e Barbieri "Barghouti. Il Mandela Palestinese". Inoltre vi riallego nel corpo del testo la lettera che vi avevo inviato al mio rientro dalla Palestina e Israele ad ottobre.

Un abbraccio,

Luisa Morgantini

Per info:
Luisa Morgantini
Uff. +39 06 69 95 0217
Fax +39 06 69 95 0200
Cell.+ 39 348 39 21 465
lmorgantini@europarl.eu.int

INVIATE IL VOSTRO CONTRIBUTO E L' INDIRIZZO O GLI INDIRIZZI DELLA PERSONA O DELLE PERSONE ALLE QUALI VOLETE REGALARE LA RICEVUTA DEL SOSTEGNO ALLA CAMPAGNA - NATURALMENTE VISTO CHE DEI REGALI NON SI DICONO I COSTI NON METTEREMO SULLA RICEVUTA L’IMPORTO DELLA SOTTOSCRIZIONE EFFETTUATA, QUESTA LA MANDEREMO SOLO A CHI VERSA IL CONTRIBUTO.


Aiuta i prigionieri politici palestinesi!
Versa il tuo contributo a:


BANCA POPOLARE ETICA
Via Rasella 14, Roma
Tel. 06 42014305
Fax 06 42005750

CAUSALE: CAMPAGNA FREE MARWAN BARGHOUTI

C/C n. 111485

Intestato a Giulia Franchi e Teresa Maisano

ABI 05018
CAB 03200
CIN R



Prefazione di Luisa Morgantini al libro di Maurizio Musolino e Paolo Barbieri “Marwan Barghouti, il Mandela palestinese” edito da Datanews – Maggio 2005

Quando, nella prima udienza, Marwan Barghouti, leader di Al Fatah, è entrato nell’aula della Corte di Tel-Aviv, ammanettato, vestito con la divisa carceraria marrone e circondato da soldati e poliziotti, i familiari delle vittime israeliane hanno urlato “assassino, terrorista” E quando Marwan vedendomi tra gli osservatori mi ha salutata chiamandomi per nome, due israeliani hanno cercato di spintonarmi urlandomi “terrorista”. Barghouti ha risposto, “non sono un terrorista, sono un combattente per la libertà, Intifada fino alla fine dell’occupazione”. Naturalmente non potevano essere presenti al processo i famigliari delle vittime palestinesi e neppure quei parenti delle vittime israeliane e palestinesi che hanno elaborato il dolore delle perdita impegnandosi per una giusta pace in Palestina e Israele.

Il suo “sequestro” con trasferimento nelle carceri israeliane è avvenuto il 15 aprile 2002 a Ramallah, area dell’autonomia palestinese, durante l’operazione “scudo difensivo” condotta dall’esercito israeliano, che ha visto la rioccupazione delle città palestinesi, rastrellamenti, distruzioni, furti, assassinii, punizioni collettive in nome della lotta contro il terrorismo. Tenuto per giorni e giorni senza dormire, legato mani e piedi ad una minuscola sedia, torturato in poche parole, è stato tenuto in isolamento, in una cella senza finestre, larga un metro e cinquanta dove non poteva neppure camminare. Dal giorno del sequestro Barghouti ha potuto incontrare la moglie solo durante la sua possibile candidatura alle elezioni per la presidenza della Palestina ancora occupta. Dei quattro figli, uno di loro, Qassem, è stato incarcerato, mentre tornava dall’Egitto, dove stava studiando, per assistere alla consegna delle laurea a sua madre. E’ in carcere dalla fine di Dicembre 2003, la sua carcerazione è un ulteriore persecuzione e tentativo di pressione nei confronti di Marwan. Le imputazioni addebitate a Qassem cambiano ad ogni udienza. Degli altri figli e figlie solo il più piccolo lo ha visto una volta. Usato dagli israeliani che hanno filmato l’incontro, contro le loro stesse norme che difendono i minori dall’essere esposti in tv, per dire che Marwan tradiva i suoi compagni attualmente in sciopero che si rifiutavano di incontrare i famigliari perché durante le visite non volevano essere separati da un vetro. Moglie e figli hanno tentato diverse volte di raggiungere Tel Aviv per vederlo almeno al processo ma i militari israeliani ai check point li hanno sempre rimandati indietro, tranne una volta in cui due dei figli sono riusciti per vie traverse a superare le barriere e ad entrare in aula. E’ stata una tragedia, quando il piccolo di 10 anni si è precipitato per prendere la mano al padre uno dei “buoni” soldati israeliani lo ha allontanato con violenza.

Il sequestro e il trasferimento in Israele di Barghouti è frutto di una ulteriore illegalità compiuta dal governo israeliano, che non rispetta la Convenzione di Ginevra che fa divieto di trasferire nel Paese occupante i prigionieri politici, inoltre Marwan è un parlamentare eletto nell’area autonoma palestinese dell’area A, ma la rioccupazione militare della Cisgiordania ha fatto interamente saltare l’accordo di Oslo.

Eppure quel 15 aprile a Bruxelles, mentre in TV, con tristezza ed angoscia, lo vedevo portato via dai soldati israeliani, ero contenta: non era stato ucciso da un commando o da un missile israeliano come era già successo ad 11 leader di Fatah della Cisgiordania, tra loro un caro amico di Marwan, Tabhet Tabhet,, un medico di Tulkarem, che aveva stabilito da lungo tempo rapporti con i pacifisti israeliani, tra loro Yehudith Harel, portavoce di Peace Now.
Yehudit dopo l’assassinio di Tabhet si dimise da Peace Now con una lettera di accusa non solo verso il governo israeliano ma anche dell’area di Peace Now che aveva difeso il governo di Barak. Sì perché gli assassinii extragiudiziali non hanno riguardato solo i leader integralisti di Hamas o della Jihad o i ragazzi delle brigate di Al Aqsa o i leader del Fronte Popolare, ma leader di Fatah che avevano sostenuto il processo di pace di Oslo.
Marwan era il segretario di Al Fatah della Cisgiordania e dell’organizzazione (Tanzim), anche se, dopo aver trascorso molti anni in carcere, era stato deportato ed aveva vissuto in Tunisia, non è mai stato considerato un leader ritornato dall’esterno, nessuno lo aveva mai considerato un “burocrate” ed è stato in larga parte il dirigente che ha sputo spiegare e fare accettare alla popolazione dei campi profughi l’accordo di Oslo. Lo ripeteva anche durante i nostri diversi incontri a Ramallah, quando era già in clandestinità, dopo che il 23 settembre 2001 venne emesso un mandato di cattura contro di lui: “Non c’è altra strada di un negoziato che porti alla realizzazione di uno Stato palestinese in coesistenza con lo Stato israeliano…Israele deve cessare l’occupazione militare, lo dicono anche le risoluzioni delle Nazioni Unite”.

Come scritto da Musolino e Barbieri nella loro introduzione a questa pubblicazione che mi auguro possa fare conoscere non solo la figura di Marwan, ma la condizione di totale illegalità in cui opera l’autorità israeliana, Marwan è sempre stato al fianco di Arafat senza lesinare critiche alla conduzione della sua leadership. Insieme ai giovani di Fatah (adesso non lo sono più molto, hanno tutti più di quarant’anni), tra di loro Qaddura Fares, Ahmed Gneim e altri ha portato avanti una campagna per dare ad Al Fatah una struttura più democratica. Libero da accuse di corruzione – anzi insieme ad altri non solo di Fatah, come Azmi Swhaibi del Fida – Marwan è stato promotore nel Consiglio Legislativo Palestinese, dove venne eletto a pieni voti nel 1996, della commissione d’inchiesta per verificare e denunciare gli illeciti di dirigenti dell’autorità palestinese.

Di questa seconda Intifada, che lui non chiama di “Al Aqsa”, ma l’Intifada dell’indipendenza e della pace”, è stato il dirigente acclamato nelle srade a fianco degli shabab. Ciò che lo convinse a rivendicare il diritto, sancito per i popoli occupati militarmente, dalla Convenzione di Ginevra, alla difesa anche armata – non alle uccisioni di civili israeliani che ha sempre condannato – fu da una parte quello che venne considerato il successo della resistenza armata degli Hezbollah con il ritiro degli israeliani dal Libano, dall’altra la reazione israeliana il 30 settembre del 2000 il giorno dopo la provocazione di Sharon alla spianata delle moschee. Molti palestinesi vennero uccisi, molti di loro picchiati e feriti, si videro alla tv scene diMarwan strattonato e colpito che mi disse: “Mi vergogno di fronte a mio figlio, non so difendere lui e non so difendere me dall’umiliazione che viene inflitta ad ogni palestinese dall’occupazione militare”. Ma la causa reale era indubbiamente legata alla continua espansione delle colonie che sottraevano terra e acqua ai palestinesi, la mancanza di libertà di movimento, il mancato rispetto da parte delle autorità israeliane degli accordi di Oslo, le migliaia di palestinesi che continuavano a restare in carcere come ostaggi.

Nel processo, Marwan ha continuamente ribadito il diritto del popolo palestinese alla resistenza ed ha accusato Israele per l’illegalità e immoralità dell’occupazione militare, ribadendo che la pace è necessaria a palestinesi ed israeliani. Nelle sue arringhe, visto che ha rifiutato di essere difeso, Marwan Barghouti ha portato un forte messaggio di pace, due popoli e due stati, forse tra quattro anni e forse persino uno Stato unico per tutti i suoi cittadini, l’occupazione militare non può continuare, ha parlato di suo padre e delle umiliazioni subite dai palestinesi, delle donne costrette a partorire ai check point, del diritto alla libertà e alla dignità per ogni essere umano, difende l’Intifada e dice di essere contrario alla morte di civili innocenti, dice che questa corte che lo sta giudicando ha già deciso la sua colpevolezza, parla delle speranze del processo di Oslo e la loro dissoluzione nella pratica di Israele della costruzione degli insediamenti, dei prigionieri politici, della sofferenza quotidiana delle generazioni e generazioni di palestinesi che hanno conosciuto le violenze dell’occupazione e non hanno mai gioito della libertà. Parla dell’altra Israele, quella dei soldati che si sono rifiutati di prendere parte ad uccisione di civili, parla dei giovani e delle donne israeliane che manifestano con i palestinesi. E trova sempre la forza di scherzare e di essere ironico, di sorridere e giocare con i suoi carcerieri e con i giudici con i quali parla l’ebraico imparato nelle loro carceri quando era ancora un giovane studente all’Università di Birzeit, è la sua profonda umanità che si manifesta. Come è stato con il suo avvocato israeliano, nipote del rabbino ortodosso Leibowicht, violentemente attaccato da un gruppo di intolleranti all’uscita di una delle udienze perché considerato un traditore e un blasfemo, aveva osato paragonare Marwan a Mosè.
Assumere la difesa di Marwan è stato per lui molto difficile, mi raccontava che la moglie voleva separarsi perché considerava Marwan un terrorista. E cosi hanno deciso di chiedere consiglio al rabbino, il quale ha proposto che prima di assumere qualsiasi decisione, la moglie doveva parlare e conoscere Marwan. L’incontro ci fu e Marwan conquistò la fiducia della moglie di Leibowicht.

Durante le varie fasi del processo e poi quando si dovevano tenere le elezioni palestinesi si è parlato diverse volte della possibilità di una sua liberazione per lo scambio, tra il governo israeliano e gli Hezbollah di corpi di soldati israeliani uccisi in Libano e prigionieri politici detenuti in Israele, ma era chiaro che Sharon non aveva nessuna intenzione di liberare Barghouti. La cosa è diventata certa quando, il 6 Giugno, anniversario dell’occupazione militare del 67, Marwan venne condannato a 5 ergastoli più 40 anni di carcere.

In questi anni di carcere Marwan, pur essendo in isolamento, è riuscito attraverso i suoi avvocati a trasmettere messaggi politici ed a restare legato agli avvenimenti. E’ con la sua autorità che si è riusciti a convincere anche Hamas e Jihad di avere una tregua, è con il suo assenso che Qaddura Fares ha partecipato a Ginevra alla firma dell’accordo promosso da Jossi Beilin e Yasser Abed Rabbo. E’ stato il suo senso di responsabilità che ha permesso ad Mohamed Abbas di essere eletto presidente anche con i voti dei sostenitori di Marwan. La sua scelta gli è costata molto, ma si è convinto di quello che i suoi amici gli dicevano: “non ci serve un presidente in carcere già abbiamo avuto Arafat prigioniero per più di tre anni”. In cambio del suo ritiro ha fatto pressione per il rinnovamento e il congresso di Al Fatah. Ma non tutti i palestinesi sono suoi sostenitori, la società palestinese è estremamente articolata nelle sue espressioni politiche, non lo amano molto i notabili, gli affaristi, ma anche molti intellettuali o forze di opposizione democratica che vedono Al Fatah come un movimento populista e conservatore che tende ad occupare ogni spazio di potere e che ritengono responsabile della deriva militare di questa seconda Intifada e della mancanza di una strategia politica.

Malgrado dal carcere Marwan lanci messaggi affinché si affronti la questione dei prigionieri politici palestinesi, la questione continua ad essere negletta e però centrale per verificare la disponibilità delle autorità israeliane alla pace e al negoziato.

Più di 8 mila palestinesi sono nelle carceri israeliane, tra loro 372 adolescenti, un numero rilevante di prigionieri in detenzione amministrativa, senza processo da anni. Torture, umiliazioni, ricatti, sono continuamente denunciate anche da B’Tselem, l’organizzazione israeliana per la difesa dei diritti umani. Tutto ciò nel silenzio della Comunità Internazionale che continua ad assolvere il governo israeliano dai suoi crimini contro l’umanità.

Degli ottomila prigionieri politici ben pochi sono quelli che hanno compiuto attentati o che hanno “le mani sporche di sangue”. I più sono palestinesi che credono nella legalità internazionale e ritengono di avere il diritto di vivere nelle proprie case, di potersi muovere liberamente nel proprio territorio, di non vedere gli alberi di ulivo sradicati per far posto ad un muro di segregazione e di apartheid, oltre che di annessione coloniale. Palestinesi che vogliono poter irrigare i campi e poter usare l’acqua dei loro pozzi che invece vedono trasferire alle nuove colonie abitate da fanatici ebrei che arrivano da Brooklin e che ritengono che quella terra sia loro per diritto divino e non vedono la sofferenza e l’ingiustizia provocata dal loro fanatismo.

La comunità internazionale dovrebbe, se ritenesse davvero una priorità la pace fra palestinesi e israeliani fare pressioni su Israele perché liberi i prigionieri politici palestinesi. Tra i quattrocento liberati dopo l’accordo di Sharm El Sheik i più avevano solo qualche giorno o mese da passare in carcere oppure erano stati arrestati perché cercavano di entrare illegalmente in Israele non per fare attentati ma per lavorare e poter mangiare.

Anche Marwan dovrebbe essere liberato, il suo processo è illegale, dire come dicono le autorità israeliane che Marwan ha le “mani sporche di sangue” e dovrà marcire in carcere è parte della cultura di vendetta. Cosa dovrebbero dire i palestinesi del premier Sharon, riconosciuto anche dal suo paese responsabile del massacro di Sabra e Chatila, o delle sue “mani sporche del sangue” dei soldati egiziani o dei palestinesi di Gaza negli anni 70 o dei suoi ordini di bombardare e uccidere i civili, e che dire che Ehud Barak anche lui con “le mani sporche di sangue” non solo per aver ordinato ma per aver eseguito l’assassinio di tre dirigenti palestinesi a Beirut, a capo del commando che a Tunisi di fronte alla moglie e al figlioletto uccise Abu Jihad?

Liberare Marwan, potrebbe essere un sogno vista l’irriducibilità di Sharon ai negoziati, ed ora con il previsto ritiro unilaterale da Gaza e le difficoltà che il “padre” dei coloni deve affrontare per il fanatismo di cui lo stesso è origine anche la comunità internazionale è ancora più restia a fare pressioni. Non solo non interviene per la liberazione dei prigionieri, ma la flebili proteste anche sull’espansione delle colonie nella Cisgiordania.

Noi però dobbiamo assumere con responsabilità, la liberazione di Marwan e dei prigionieri politici palestinesi, è prima di tutto un atto di giustizia ed un contributo alla pace. Liberare i prigionieri significa anche togliere a migliaia di palestinesi le giustificazioni per appoggiare azioni estremiste o criminali ed è soprattutto dare credibilità al Presidente Abu Mazen e alla possibilità di un negoziato tra parti che si riconoscono nel diritto di ciascuno ad esistere con dignità e libertà. Forse il 17 luglio si terranno le elezioni nazionali palestinesi sarebbe molto importante che Marwan Barghouti ed altri prigionieri fossero candidati ed eletti.

Mi auguro che questa pubblicazione possa essere uno strumento per una campagna in Italia per la liberazione di Marwan Barghouti e di tutti i prigionieri politici palestinesi, campagna che deve essere fatta da tutti coloro che hanno a cuore una pace giusta in Palestina e Israele.

Luisa Morgantini – Maggio 2005



Care tutte e tutti,

nel mio ultimo viaggio in Palestina (27 - 31 Ottobre) ho incontrato, assieme alla delegazione di eurodeputati che erano con me, la Campagna Free Marwan Barghouti. La Campagna si è sostenuta in tutti questi anni con i fondi palestinesi. Lo stipendio che Marwan Barghouti riceveva dall’OLP veniva sistematicamente inoltrato dalla moglie Fadwa alla Campagna.

Come tutti e tutte sappiamo da gennaio di quest’anno lo stipendio di Marwan non viene pagato, come quello di migliaia e migliaia di dipendenti pubblici e parlamentari palestinesi. I soldi provenienti dai dazi palestinesi vengono illegalmente trattenuti da Israele per la elezione di Hamas. E la Comunità Internazionale boicotta il governo palestinese. E anche i palestinesi che sostenevano la campagna sono in serie difficoltà economiche visto che la gran parte di loro per poter mangiare sta vendendo oggetti di famiglia o facendo prestiti da usura.

Per la prima volta dalla nascita della campagna, il suo coordinatore Sa’d Nimr ha chiesto un aiuto economico per mantenere in vita il lavoro e l'impegno per la liberazione dei prigionieri politici palestinesi. Credo che non possiamo esimerci dal rispondere a questo appello.

E per questo che vi invito a versare un contributo finanziario per la campagna per la liberazione di Marwan Barghouti e dei prigionieri politici palestinesi.
Di seguito troverete una scheda dettagliata dei costi che devono sostenere, oltre ai dati bancari per effettuare un bonifico.

Fate girare il più possibile.

Un abbraccio

Luisa Morgantini

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17 dicembre 2006

Un ostacolo verso la pace.

Il 14 dicembre l’Assemblea Generale dell’Onu ha adottato varie risoluzioni di condanna delle attività di Israele nei Territori palestinesi, tra le quali spiccano quella che riafferma l’applicabilità della Convenzione di Ginevra ai Territori occupati, e la risoluzione che deplora le politiche e le attività poste in essere da Israele in violazione dei diritti umani dei Palestinesi e delle altre popolazioni arabe.
Ma il testo più importante adottato dall’Assemblea dell’Onu è senz’altro quello che riafferma come gli insediamenti colonici costruiti nei Territori occupati, inclusa Gerusalemme Est, e nel Golan siriano siano del tutto illegali e costituiscano “un ostacolo alla pace e allo sviluppo economico e sociale”, reiterando la richiesta della totale cessazione di ogni attività di colonizzazione.
Quest’ultima risoluzione è stata approvata con la solita stragrande maggioranza di 162 voti a favore ed 8 contrari, mentre le nazioni astenute sono state 10; va notato, in particolare, come abbiano votato in blocco a favore del testo le nazioni europee, mentre a fianco di Israele, nel votare contro, si sono ritrovati gli Usa e l’Australia insieme con il solito contorno delle superpotenze dell’area del Pacifico: Isole Marshall, Micronesia, Nauru, Palau, Tuvalu.
Il mondo nella sua quasi interezza, dunque, sa bene dove stanno i torti e le ragioni, e ben conosce quali siano gli ostacoli sul cammino della pace tra Israeliani e Palestinesi, e chi sia a frapporli.
Il vero problema è che, ancora una volta, ad Israele – la nazione sotto esame e condannata - si chiede soltanto di adottare e/o di cessare determinati comportamenti ed attività, mentre i Palestinesi - il popolo oppresso e massacrato - pur vedendo riconosciuta la legittimità delle loro pretese e dei loro diritti, continuano incredibilmente ad essere sottoposti ad un durissimo boicottaggio economico che ne acuisce vieppiù le già insopportabili sofferenze.
Forse sarebbe ora di invertire le parti.

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12 dicembre 2006

Emergenza umanitaria in Palestina.

Il 7 dicembre scorso 12 agenzie dell’Onu e 14 ong operanti nei Territori palestinesi hanno lanciato una raccolta straordinaria di fondi da destinare agli aiuti umanitari in Palestina per il 2007, per un ammontare complessivo di oltre 453 milioni di dollari.
Si tratta della maggiore richiesta di fondi mai avanzata per i Territori occupati, ed il terzo più grande appello mai lanciato al mondo.
Secondo Kevin Kennedy, Coordinatore umanitario dell’Onu, “due terzi dei Palestinesi nel West Bank e nella Striscia di Gaza vivono in povertà (con meno di 2 dollari al giorno, n.d.r.) e un numero crescente di persone è incapace di assicurarsi il fabbisogno giornaliero di cibo”; le agenzie riferiscono – ha aggiunto – che molti dei servizi pubblici di base, come la sanità e l’istruzione, vanno rapidamente deteriorandosi.
I motivi del drammatico aggravarsi delle condizioni di vita nei Territori palestinesi sono naturalmente noti a tutti, e ce li ricorda David Shearer, capo dell’Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA): “in cima ai problemi insieme con la libertà di movimento, (il boicottaggio economico) ha un enorme impatto sui livelli di povertà in Cisgiordania e a Gaza”.
A seguito della vittoria di Hamas alle elezioni parlamentari del gennaio di quest’anno, infatti, le nazioni occidentali hanno cessato ogni trasferimento ed aiuto finanziario diretto all’Autorità palestinese; in aggiunta, Israele ha illegalmente trattenuto, e continua a trattenere, le tasse ed imposte doganali che – in base agli accordi di Parigi del 1994 – dovrebbe invece riversare nelle casse del Governo palestinese.
Questo boicottaggio internazionale ha reso l’Anp incapace di provvedere al pagamento dei salari degli oltre 160.000 dipendenti pubblici, dai cui stipendi dipendeva il mantenimento ed i livelli di sussistenza di circa un milione di Palestinesi.
Per quanto riguarda gli accessi da e per Gaza e, più in generale, alla libertà di movimento e di commercio nei Territori palestinesi, si rimanda al report redatto a cura dell’OCHA ad un anno dall’accordo AMA del novembre 2005 (The Agreement on Movement and Access – One year on, novembre 2006).
Qui basterà ricordare che, nonostante le assicurazioni di Israele e i buoni uffici della Rice, “la capacità di accesso dei Palestinesi residenti nella Striscia di Gaza sia alla Cisgiordania sia al mondo esterno rimane estremamente limitata ed il flusso dell’attività commerciale è irrilevante”.
Dal 25 giugno in poi, il valico di Rafah è rimasto aperto solo per il 14% dei giorni previsti dagli accordi, impedendo il regolare passaggio degli uomini d’affari e persino quello dei pazienti bisognosi di cure mediche all’estero (alcuni di essi sono morti assurdamente lì, aspettando…).
Il valico di Karni, il principale punto di passaggio per il traffico commerciale, a partire dal 29 marzo è rimasto chiuso per circa il 53% dei giorni schedulati, con un sensibile impatto sulle entrate derivanti dal commercio estero; si calcola, in particolare, che le chiusure del valico di Karni abbiano provocato, solo nel primo quarto del 2006, una perdita secca nelle entrate pari a 600.000 dollari al giorno.
Per quanto riguarda il West Bank, mentre lo scopo dell’AMA doveva essere quello di facilitare il movimento di persone e merci al suo interno, nella realtà è avvenuto esattamente l’opposto, con un incremento dei check-points e degli ostacoli di vario genere pari al 44% (l’OCHA ne ha censiti ben 540) ed un livello di difficoltà di movimento all’interno della Cisgiordania addirittura accresciuto.
Davanti allo stato di profonda crisi dell’Autorità palestinese ed alla drammatica situazione umanitaria della popolazione, l’ipocrisia europea, pur di non recedere dal boicottaggio, si è inventata il TIM, che non è una nuova compagnia di telefoni cellulari, bensì l’acronimo di Temporary International Mechanism.
Tale “meccanismo” avrebbe dovuto bypassare il governo a guida Hamas ed assicurare alle fasce più deboli della popolazione palestinese un livello di entrate sufficiente a garantirne la sussistenza ed un tenore di vita dignitoso.
Ma il fallimento del TIM, certificato ora dalla richiesta straordinaria di fondi avanzata dalle agenzie Onu, è reso subito evidente dal fatto che beneficiari delle erogazioni straordinarie di questo fondo sono state ben … 73.000 persone: un vero successo epocale!
Ma il problema non è nemmeno il livello di aiuti umanitari che si riuscirà a garantire alla popolazione palestinese.
Come ha sottolineato Shearer, “noi siamo ansiosi di aiutare il maggior numero di persone bisognose a mantenere la loro dignità e ad avere un reddito, ma la comunità delle organizzazioni umanitarie non è in condizione di provvedere all’intera gamma di servizi offerti dall’Autorità palestinese…”.
In altre parole, quando terminerà questo assurdo boicottaggio, che colpisce non certo Hamas ma l’intera popolazione palestinese, ed in specie le fasce più deboli, gli anziani, i bambini, gli ammalati?
Quando finirà questo incredibile sovvertimento della realtà e della giustizia, in cui i bugiardi, i carnefici, gli assassini sono premiati ed osannati, mentre gli oppressi vengono sottoposti ad un embargo economico che ne rende la vita ancor più difficile e penosa?

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8 dicembre 2006

Perchè mai l'Iran vuole l'atomica?

La notizia non è strettamente attinente all’argomento di questo blog, ma è ugualmente interessante.
Giovedì, infatti, nel corso di una audizione al Senato degli Stati Uniti, il Segretario alla Difesa in itinere Robert Gates ha affermato che Israele possiede testate atomiche, e che ciò spiegherebbe, almeno in parte, il desiderio dell’Iran di dotarsi anch’esso di armamenti di tipo nucleare.
“Essi (gli Iraniani) sono circondati da potenze con armamenti nucleari – Pakistan a est, i Russi a nord, gli Israeliani a ovest e noi nel Golfo Persico” avrebbe dichiarato Gates durante l’audizione.
Accidenti, dunque Israele possiede testate nucleari, la scoperta dell’acqua calda, o della patata lessa se volete – per stare ad una nota pubblicità – e verrebbe da sorridere se non tornasse subito alla mente che il povero Mordechai Vanunu è stato rapito dal Mossad (a Roma…) ed ha trascorso ben 18 anni nelle galere israeliane per aver reso di pubblico dominio il fatto che Israele, presso il sito di Dimona, possedeva e possiede un paio di centinaia di testate nucleari.
Fatto questo che pure i bambini in Israele conoscono, ma che i vari governi israeliani hanno sempre rifiutato di ammettere, persino oggi.
E benché le reazioni ufficiali israeliane – stando alla portavoce governativa Miri Eisin – siano improntate al no comment, una certa irritazione traspare per questo brillante “esordio” del prossimo Segretario alla Difesa U.S.A.
Lo stesso Olmert – pur senza riferirsi esplicitamente all’accenno di Gates sullo status di Israele quale potenza nucleare – ha immediatamente replicato affermando di non ritenere “che alcuno negli Stati Uniti pensi che ci sia una giustificazione per il conseguimento da parte dell’Iran della capacità nucleare”.
E, tuttavia, Olmert e Israele mancano ancora una volta di spiegare agli Iraniani – e al resto del mondo – perché mai all’Iran non dovrebbe essere consentito di possedere armamenti che essi stessi hanno già da lungo tempo acquisito.
Ovvero, detto meglio, se all’Iran non deve essere consentito di acquisire la tecnologia utile a costruire (in ipotesi) testate nucleari, perché mai, a sua volta, Israele non dovrebbe essere “denuclearizzato”?
Ah già, dimenticavo, loro sono i “buoni”, mentre l’Iran è il perno dell’asse del male…

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4 dicembre 2006

Che Paese moderno è Israele!

Problemi per la compagnia di bandiera israeliana El Al, "colpevole" di aver violato il riposo sabbatico avendo organizzato un volo, di sabato per l'appunto, per riportare in patria dei passeggeri rimasti bloccati da uno sciopero a sorpresa.
Gli integralisti ebraici, infatti, rimasti profondamente indignati, vogliono organizzare un boicottaggio della compagnia aerea, di cui è stata pubblicata una lista di voli sconsigliati ai "timorati", i quali potranno scegliere altre compagnie a condizione che a bordo si servano cibi "idonei".
Secondo il rabbino Yossef Shalom Elyashiv la El Al "è divenuta così una compagnia pericolosa" dato che, "se non difende il riposo sabbatico ... l'Onnipotente non la protegge più"!
Bizze di una minoranza senza peso? Non proprio.
Pare infatti che gli ortodossi rappresentino il 20-30% dei passeggeri della El Al, che si concentrano sui voli tra Tel Aviv, Londra e New York, e la perdita secca degli introiti preventivabile in conseguenza del boicottaggio minacciato non lascia certo dormire sonni tranquilli ai dirigenti della compagnia.
Ora, nessuno vuole mettere in discussione l'importanza rivestita dal riposo sabbatico per l'ebraismo, ma certo appare sconcertante che tale precetto possa risultare prevalente rispetto al disagio di persone sorprese da uno sciopero lontano da casa (nella fattispecie a New York).
E allora sovviene in mente la terribile sentenza pronunciata da un altro rabbino, Avi Romsky (vedi http://palestinanews.blogspot.com/2006/03/il-razzismo-ebraico.html), il quale, nel corso di un dibattito sulla legittimità o meno di curare un terrorista arabo ferito durante lo Shabbat, ebbe a dichiarare: “la vita di un non-giudeo ha certamente valore … ma il valore dello Shabbat è più importante”!
Davvero un magnifico Paese, moderno e civile, è Israele!

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