28 novembre 2008

Domani tutti a Roma!


Pullman per la manifestazione di solidarietà con il popolo palestinese che si svolgerà domani a Roma:


da Milano: chiamare 338 4718844


da Pisa: chiamare 329 6947952 - 329 7973174


da Bologna: chiamare 340 9892393


da Firenze: partenza sabato ore 10.00 al mercato di Novoli info: tirofjo@katamail.com

da Napoli: partenza sabato ore 10.00 all'Hotel Terminus (piazza Garibaldi) 329 7856389

da Padova: contattare massimo 335-1990945

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25 novembre 2008

Invadere Gaza? No, costa troppo!

Periodicamente, soprattutto in periodi come questo in cui Israele è sottoposto al tiro costante di mortai e razzi Qassam provenienti dalla Striscia di Gaza (più di 100 razzi e granate di mortaio nel periodo 5-16 novembre, secondo l’OCHA), si accendono le polemiche sull’opportunità di un intervento in forze dell’esercito israeliano all’interno della Striscia di Gaza, e talora si invoca la rioccupazione della Striscia al fine di risolvere il problema alla radice.

La scorsa settimana centinaia di persone hanno organizzato una manifestazione allo svincolo principale d’ingresso per la città di Ashkelon, per protestare contro l’inerzia del governo israeliano e la mancanza di rifugi fortificati per difendere l’incolumità dei residenti.

Secondo il vicesindaco di Ashkelon, Avi Vaknin, l’Idf “ha lasciato per mesi che Hamas si riarmasse e diventasse più forte, e adesso questi dirigono la loro rabbia contro di noi e non c’è nessuna risposta”.

In realtà, non solo la risposta c’è stata, ma il vicesindaco sorvola sul fatto che a rompere la tregua è stato proprio Israele, con l’incursione avvenuta nella notte tra il 4 e il 5 novembre in cui, nel corso di diversi raid, l’esercito israeliano ha ucciso 7 militanti palestinesi.

Come ha osservato venerdì scorso il ministro della difesa israeliano Barak, “le recenti ondate di lanci di razzi sono il risultato delle nostre azioni, che hanno portato all’uccisione di 20 membri di Hamas; noi continueremo ad usare la forza, ma se l’altra parte lavora per mantenere la tregua, noi saremo pronti a fare altrettanto”.

Dunque, nonostante tutto, attualmente non vi è sul tavolo alcuna opzione relativa ad un’estesa operazione militare di terra a Gaza, preferendo il governo israeliano ricorrere a sporadici raid e, soprattutto, alla abominevole punizione collettiva consistente nella totale chiusura degli accessi alla Striscia, arrivata oggi al 21° giorno, che sta riducendo letteralmente alla fame un milione e mezzo di Palestinesi.

La contrarietà all’opzione di un rientro in forze dell’esercito israeliano a Gaza, solitamente, viene motivata con l’alto numero di perdite che un’operazione militare di tal genere provocherebbe sia tra le fila dell’esercito israeliano sia tra la popolazione civile palestinese.

E tuttavia, come si è potuto osservare in occasione della guerra in Libano che ha contrapposto l’Idf alle milizie di Hezbollah, il governo israeliano non si è poi preoccupato così tanto né delle vite dei soldati di Tsahal né, tanto meno, di quelle dei civili libanesi, come è provato soprattutto dall’uso criminale e indiscriminato delle cluster bomb da parte dell’esercito israeliano.

Ma adesso conosciamo il vero motivo per cui Israele non intende rioccupare la Striscia di Gaza, e ce lo svela Ha’aretz: secondo l’esercito israeliano, la rioccupazione di parte della Striscia di Gaza costerebbe ad Israele 17 milioni di shekel al giorno (poco più di 3,3 milioni di euro).

Questa somma servirebbe soltanto a coprire i bisogni umanitari più immediati della popolazione palestinese che verrebbe a trovarsi sotto il controllo israeliano e che una forza occupante è tenuta a soddisfare in base al diritto umanitario: latte in polvere per i bambini, pannolini, razioni di cibo per tutti i residenti.

Il costo di questi beni ammonterebbe a circa 500 milioni di shekel al mese, e non includerebbe alcuno dei costi associati al fatto di mantenere nella Striscia un largo spiegamento di truppe, ivi incluse le unità della riserva.

Ecco perché è preferibile limitarsi ad assediare la Striscia di Gaza anziché entrarvi, e pazienza se a pagare sono centinaia di migliaia di civili innocenti, privati per mesi – secondo le parole dell’Alto Commissario dell’Onu per i Diritti Umani Navi Pillay – “dei più basilari diritti umani”.

Il che dovrebbe far riflettere, ancora una volta, come gli aiuti umanitari alla popolazione palestinese rappresentino, in realtà, aiuti finanziari ad Israele a sostegno della sua illegale occupazione dei territori palestinesi, in quanto lo assolvono dall’obbligo di provvedere ai bisogni della popolazione civile sotto occupazione, secondo quanto previsto dal diritto umanitario.

Forse sarebbe ora di chiedere il conto agli Israeliani.

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21 novembre 2008

Sciopero della fame.

Dal sito di Infopal.

Comunicato stampa del Free Gaza movement
Attivisti per i diritti umani iniziano sciopero della fame in Israele
Per informazioni:
Neta Golan (ISM Palestine) +972 (0)598 184 169 / +972 (0)22 971 824
Fida Qishta (ISM Gaza) +972 (0)599 681 1669
Donna Wallach (ISM Gaza) +972 (0)598 836 420


Massiyahu Prison, Lida, Israel (20 November, 2008) - Tre osservatori per i Diritti umani dell'International Solidarity Movement domani inizieranno uno sciopero della fame per protestare contro la loro detenzione illegale da parte di Israele.


I tre osservatori, Darlene Wallach, Usa, Vittorio Arrigoni, Italia, e Andrew Muncie, Scozia, martedì sono stati rapiti con la forza dalla Marina israeliana, mentre accompagnavano pescatori palestinesi disarmati al largo delle coste della Striscia di Gaza.


Secondo Wallach, "Stavamo pescando a circa 7 miglia al largo di Gaza. I soldati israeliani sono arrivati a bordo di tre navi e di quattro Zodiacs. Uomini-rana sono saliti su ogni peschereccio. Hanno usato una pistola elettrica, taser, contro Vik mentre era ancora sulla barca, poi, hanno cercato di spingerlo all'indietro, contro un pezzo di legno tagliente. Lui si è buttato in mare per evitare di essere ferito ulteriormente ed è rimasto in acqua per un po'. Poi lo hanno raggiunto e costretto a salire sullo Zodiac puntandogli contro i fucili. Lo hanno rapito, insieme a Andrew e a Darlene e a tutti i pescatori palestinesi".


Israele ha sequestrato e poi rilasciato 15 pescatori palestinesi e confiscato le loro imbarcazioni. Gli osservatori rifiutano di essere deportati e rifiutano di mangiare finché i pescherecci non verranno restituiti- intatti- ai loro legittimi proprietari a Gaza.


In tribunale, oggi, Andrew Muncie ha chiesto al giudice in base a quale legge sono stati arrestati. Secondo il giudice, la loro detenzione è autorizzata dagli Accordi di Oslo in quanto "la legge militare ti proibisce di pescare a 7 miglia e mezzo dalla costa. Quella non è zona di pesca". Tuttavia, gli Accordi di Oslo garantiscono ai palestinesi il diritto di pescare a 20 miglia al largo dalle coste gazesi. Quando l'avvocato di Andrew ha presentato al giudice una copia dell'Accordo di Oslo relativo a questo argomento, ella non ha fatto commenti.


Il 23 agosto del 2008, Wallach, Muncie e Arrigoni erano tra i 44 membri del Free Gaza Movement, a bordo della prima imbarcazione entrata a Gaza via mare in 41 anni, per rompere l'assedio israeliano. Essi sono rimasti a Gaza per partecipare alle attività per i diritti umani dell'International Solidarity Movement. Hanno vissuto e lavorato a Gaza dall'estate, accompagnando i pescatori e i contadini palestinesi, e documentando gli abusi israeliani nella Striscia di Gaza.


I tre inizieranno il digiuno domani mattina finché i pescherecci confiscati non verranno riconsegnati nelle stesse condizioni in cui si trovavano al momento del sequestro da parte degli uomini-rana e finché ogni danno non verrà riparato.


Tutti e tre gli attivisti sono disponibili per interviste. Contattate l'ISM per ulteriori informazioni e per i loro numeri di telefono.

Greta Berlin
Media Team
Free Gaza Movement
357 99 08 17 67

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20 novembre 2008

Intervista a Vittorio Arrigoni.

Dal sito di Infopal, riportiamo questa intervista telefonica con Vittorio Arrigoni, noto blogger e attivista per i diritti umani arrestato il 18 novembre dalla marina israeliana mentre, come al solito, accompagnava alcuni pescatori palestinesi in una battuta di pesca al largo della costa di Gaza.
Nessun commento è necessario riguardo al contenuto, da cui risalta, ancora una volta, il rispetto della legalità internazionale e dei diritti umani da parte degli Israeliani, la loro brutalità e il loro odio razzista, la pretestuosità delle ragioni di "sicurezza" accampate ogni volta che si macchiano di un crimine.
Infopal, mercoledì 19 novembre, ore 19.

Abbiamo intervistato Vittorio Arrigoni, attivista dell'International Solidarity Movement, rapito ieri dalle forze israeliane mentre si trovava in mare con i pescatori di Gaza, anch'essi sequestrati e poi liberati questa mattina.

Al momento, Vittorio è rinchiuso nel carcere di Ramle. Si sente un gran frastuono: i suoi compagni di cella, rifugiati eritrei fuggiti dalla guerra, stanno guardando una partita.

Come stai?

Eh, ora che ho ripreso contatto con il mondo esterno, meglio...La notizia della liberazione dei 15 pescatori mi ha tirato su di morale. Ieri avevamo iniziato uno sciopero della fame, proprio per ottenerne la scarcerazione...

Ci racconti cos'è successo ieri mattina? Sai, un importante quotidiano italiano, che oggi ha riportato un trafiletto sul vostro sequestro, ha parlato di pescatori e attivisti "prelevati" dai militari israeliani...Per il resto, tg e testate più importanti hanno osservato il silenzio assoluto.

Altro che "prelevati"! Si è trattato di un rapimento, di un sequestro di persona in piena regola! Eravamo in mare, a 6 miglia nautiche al largo delle coste di Gaza (per il diritto internazionale si tratta di acque gazesi, ndr), con tre pescherecci, quando ci siamo di trovati di fronte una scena incredibile: navi da guerra, e gommoni Zodiac, da cui sono spuntate teste di cuoio, militari incappucciati e armatissimi. Un attacco bellico in piena regola contro pescatori e pacifisti, da non crederci! Due pescherecci sono stati subito bloccati e le persone a bordo sequestrate. Poi, hanno circondato il nostro. Io mi sono arrampicato sul tetto della barca e ho cercato di parlare al capitano: "Che problema vi creano dei pescatori? Problemi di sicurezza? Di che avete paura?", ho chiesto. Ma non ne ho ottenuto risposte. Da dietro le maschere, quegli uomini, giovanissimi, ci guardavano con occhi che sprizzavano odio. Un odio animalesco. Li educano all'odio e al disprezzo verso i palestinesi.

Poi, com'è andata a finire?

Sono saltati a bordo, all'arrembaggio. Ho detto loro, mentre mi puntavano le loro armi contro la testa: "Allora, uccidetemi!". Mi hanno sparato contro con una pistola elettrica, la Taser, made in Usa, che scarica scosse elettriche ad alto voltaggio, molto pericolose. Poi, hanno cercato di buttarmi giù dal tetto, temendo di cadere e rompermi la spina dorsale, mi sono gettato in mare e ho iniziato a nuotare verso riva, inseguito dagli spari di proiettili veri. Dopo mezz'ora non avevo più fiato e mi sono arreso. Mi hanno portato insieme agli altri nella prigione di Ashkelon, dove ho assistito a scene allucinanti, da campo di concentramento: i pescatori sono stati costretti a spogliarsi e sono stati ammanettati come criminali e portati via. Dico, dei pescatori! Io sono finito nella prigione dove tre anni fa fui rinchiuso e picchiato dai soldati israeliani. Che brutti ricordi. Ci hanno accolto con pesanti insulti, ingiurie, risate di scherno...Sono stato rinchiuso con un altro in un cesso, sì, in un cesso, un posto schifoso e angusto. Per spregio, ovviamente. E sono stato tenuto incatenato alle caviglie.

L'ambasciata italiana si sta occupando del tuo caso...

Sì, ho ricevuto la visita del Console. Pensa che si è rivolto alla direzione carceraria dicendo loro che avevo il diritto di telefonargli, "secondo il diritto internazionale". Ha usato questa espressione, con loro, che del diritto internazionale e umanitario se ne fanno un baffo...

E ora, ti manderanno via...

Stiamo aspettando la sentenza di espulsione...Ho lasciato tutto nel mio appartamento di Gaza - passaporto, documenti...E sono molto dispiaciuto per il buon lavoro che stavamo portando avanti con contadini e pescatori, che con la nostra espulsione verrà interrotto.

Che è esattamente ciò che vogliono...

Già...Cercano di intimidirci. Sono preoccupato anche per i pescatori, a cui hanno sequestrato le tre barche...Esse danno lavoro e sostentamento a circa 50 famiglie. Ma almeno sono liberi...Altri, prima di loro, hanno passato mesi in carcere, nel Negev...

Se vi mandano via, tornerete?

Vorrei tornare con il prossimo viaggio di Dignity, a dicembre. Certo, faranno di tutto per impedircelo.

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19 novembre 2008

Un crimine disumano.



Il totale assedio imposto da Israele alla Striscia di Gaza continua a causare indicibili sofferenze e privazioni a un milione e mezzo di Palestinesi che vi risiedono.

Più della metà di essi, in particolare, è affetta da continue interruzioni nell’erogazione dell’energia elettrica, a causa del blocco delle importazioni di carburanti operato da Israele la scorsa settimana. Ma se l’essere privi di corrente è per molti un pur grave disagio, per qualcuno la scarsità di carburanti può rappresentare una vera e propria condanna a morte.

E’ il caso descritto nel video di Russia Today, che racconta la vicenda di un bambino palestinese di 8 anni, Makher al-Asli, paralizzato e completamente dipendente da un respiratore artificiale, alimentato da un generatore diesel.

Per mantenere in vita Makher, come racconta il padre nel video, la sua famiglia è costretta ad estenuanti ricerche presso ogni distributore aperto per reperire i quantitativi di gasolio necessari a mantenere in funzione il macchinario che lo tiene in vita.

Ma Makher al-Asli non è il solo a rischiare la vita nella Striscia di Gaza a causa dell’assedio israeliano e del blocco totale di ogni importazione di merci.

I continui black out nell’erogazione della corrente elettrica colpiscono gravemente anche ospedali e cliniche, non solo a causa della conseguente sospensione delle operazioni e delle cure nelle unità intensive, ma anche per i danni provocati a vaccini, sieri e medicinali da conservare nei refrigeratori.

A ciò aggiungasi la crescente scarsità di medicine, attrezzature e parti di ricambio, che hanno un impatto devastante sul già fragile sistema sanitario della Striscia di Gaza. Secondo la World Health Organization (WHO), attualmente a Gaza risultano esauriti ben 95 farmaci essenziali e 174 tipi di attrezzature mediche (cfr. Unrwa, Gaza Humanitarian Situation Report, 17 novembre).

Ma se niente entra, niente può nemmeno uscire da Gaza, nemmeno gli ammalati.

E dunque la Croce Rossa Internazionale denuncia come il numero di malati gravi che necessitano di cure in ospedale in Cisgiordania, in Israele o all’estero e che sono autorizzati ad uscire dalla Striscia si sia ridotto di circa la metà, e stiamo parlando di persone affette da disturbi cardiaci, da tumore o da altre amenità del genere, destinati alla morte se non riceveranno le cure adeguate alle loro patologie.

Ma il blocco israeliano ha anche altre conseguenze sulla salute degli abitanti di Gaza.

Come riportato alcuni giorni addietro dal Corriere della Sera – citando alcune anticipazioni di un rapporto della CRI – nella Striscia scarseggiano molti alimenti essenziali, tra cui cereali, olio, frutta fresca, verdura, zucchero, farina, e 7 bambini su 10 mostrano preoccupanti carenze di ferro, vitamina A e D.

L’UNRWA, l’agenzia Onu che si occupa dei rifugiati, ha fatto sapere che, perdurando il blocco (persino dei beni umanitari!), non sarà più in grado di provvedere alle necessità dei 750.000 Palestinesi che attualmente assiste tra mille difficoltà.

Va segnalato, infine, come il 30% della popolazione di Gaza ha accesso all’acqua corrente per 4-6 ore ogni quattro giorni, il 30% per 4-6 ore ogni tre giorni e il 40% per 4-6 ore ogni giorno; questo in teoria, perché in pratica, negli edifici più alti, spesso i residenti non riescono ad avere l’acqua anche quando le autorità provvedono a rifornire l’area.

Questo quadro assolutamente sintetico – perché molto altro vi sarebbe da dire – mostra di tutta evidenza la drammaticità della situazione umanitaria a Gaza.

Non è un caso che si moltiplichino gli appelli a favore di una cessazione del blocco israeliano della Striscia, con parole a volte pesanti e inusuali per agenzie umanitarie, necessariamente dedite alla diplomazia. Ne citiamo solo alcuni.

Ban Ki-moon, Segretario Generale dell’Onu: “il cibo e altri aiuti necessari per la vita vengono negati a centinaia di migliaia di persone, e quelle misure che accrescono le privazioni e le sofferenze della popolazione civile di Gaza sono inaccettabili e devono cessare immediatamente”.

Karen Koning AbuZayd, Commissario Generale dell’UNRWA: “Gaza è sul punto di diventare il primo territorio ad essere intenzionalmente ridotto ad uno stato di completa indigenza”.

Navi Pillay, Alto Commissario dell’Onu per i Diritti Umani: 1,5 milioni di Palestinesi “sono stati privati con la forza per mesi dei più basilari diritti umani”.

Il vero è che gli Israeliani, questi carnefici nazisti del XXI secolo, hanno trasformato la Striscia di Gaza in un vero e proprio campo di concentramento, costringendo un milione e mezzo di Palestinesi a vivere in condizioni miserabili, privi di luce, acqua, cibo, medicinali nelle quantità necessarie ad una vita civile, sana, dignitosa, ponendo in essere una inaudita punizione collettiva che è insieme un crimine per il diritto e un abominio morale.

E l’inerzia e/o l’indifferenza del nostro come di altri governi europei – che si affannano a dichiararsi amici di Israele e si preoccupano per la sua “sicurezza” - rappresentano una vergogna incancellabile ed un clamoroso fallimento del dovere etico e giuridico di ogni Stato civile di difendere un’intera popolazione inerme e alla mercé di un brutale oppressore.

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18 novembre 2008

Arrestato Vittorio Arrigoni.


Vittorio Arrigoni, alias guerrillaradio, è un attivista dell’International Solidarity Movement (ISM) ed un noto blogger che si occupa da anni di denunciare le sofferenze della popolazione palestinese e i crimini di guerra commessi dalle truppe di occupazione israeliane.

Vittorio è arrivato nella Striscia di Gaza il 23 agosto con la prima delle tre imbarcazioni (Free Gaza, Liberty, Dignity) con cui il Free Gaza Movement ha rotto l’assedio che Israele ha imposto illegalmente, anche dal mare, a un milione e mezzo di Palestinesi costretti a soffrire una disumana e inaudita punizione collettiva nell’impotenza, talora nella totale indifferenza, della comunità internazionale.

Da allora, mentre i suoi compagni di avventura sono tornati indietro, Vittorio è rimasto invece a Gaza, per tentare di lenire con la sua opera e la sua presenza le sofferenze della popolazione, impegnandosi soprattutto ad accompagnare i pescatori di Gaza nelle loro battute di pesca quotidianamente ostacolate dalla marina israeliana.

Stamattina il sito web dell’Unità, riprendendo una press release dell’ISM, ha reso noto che la marina israeliana ha fermato tre imbarcazioni da pesca palestinesi, arrestando quindici pescatori di Gaza e tre attivisti internazionali, lo scozzese Andrew Muncie, l’americana Darlene Wallach e, appunto, il nostro Vittorio Arrigoni; le tre imbarcazioni si trovavano a circa 7 miglia al largo di Deir al Balah, al di fuori del limite delle 6 miglia marine (ma talvolta anche di tre) arbitrariamente imposto da Israele all’attività di pesca dei Palestinesi.

Va detto infatti che, nonostante un accordo siglato nel 1994/95 tra l’Olp e Israele stabilisse che i pescatori di Gaza potevano operare entro un raggio di 20 miglia marine dalla costa, la marina israeliana – per le solite e imperscrutabili ragioni di “sicurezza” – ha sempre impedito ai pescatori palestinesi di oltrepassare il limite delle sei miglia, ostacolando in vari modi le operazioni di pesca, sparando con cannoni ad acqua (sporca…) e talora persino mitragliando le imbarcazioni degli inermi pescatori.

Il risultato è che buona parte delle imbarcazioni di Gaza sono “decorate” da artistici fori operati dai proiettili israeliani e che – solo l’anno scorso – ben 70 pescatori palestinesi sono stati arrestati, mentre 14 sono stati uccisi dai valorosi marinaretti israeliani dal 2000 ad oggi.

Lo stesso Vittorio, nel corso di una battuta di pesca, è stato ferito dalle schegge del vetro della cabina di pilotaggio dell’imbarcazione sulla quale si trovava, investito dal forte getto d’acqua proveniente da una motovedetta israeliana.

A Gaza vi sono circa 3.500 pescatori di professione, dal cui lavoro dipende la sussistenza di circa 40.000 Palestinesi; nonostante Israele si sia ufficialmente “disimpegnato” da Gaza, la sua marina impedisce a questi onesti lavoratori di assicurarsi il pane quotidiano, nella più totale illegalità ed arbitrarietà: impedire ai pescatori di Gaza di andare in mare aperto, tra l'altro, significa impedire loro di catturare maggiori quantità di pesce, ed infatti il quantitativo medio di pescato, in dieci anni, è drammaticamente sceso da 3.000 a 500 tonnellate all’anno.

Ed è proprio per tentare di impedire questo arbitrio e questi abusi che Vittorio ha deciso di restare a Gaza, ed ora è nelle mani delle autorità israeliane senza che vi siano notizie certe sul suo destino.

Secondo il blog femminismo a sud, Vittorio e gli altri due sue compagni si troverebbero all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, in attesa di espulsione; sul sito di Infopal si può leggere una lettera-appello della mamma di Vittorio, nonché un aggiornamento sulla situazione di Luisa Morgantini.
Altri aggiornamenti puntuali sulla situazione sul blog Logicokaos.

Speriamo che il consolato italiano si attivi con la dovuta solerzia e fermezza contro questa ennesimo atto di illegalità commesso da Israele.

E speriamo – e sarebbe l’ora – che la comunità internazionale si attivi con ogni mezzo possibile, ivi inclusi sanzioni e boicottaggi, per costringere Israele a togliere l’assedio alla Striscia di Gaza e a restituire un milione e mezzo di Palestinesi ad una vita civile e dignitosa.

Perché di fronte ad un simile disprezzo mostrato per la vita altrui ed alla negazione di ogni più elementare diritto, non può sorprendere che qualcuno paragoni la Striscia di Gaza ad un campo di concentramento.

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Coloni.


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17 novembre 2008

21 novembre: cena di finanziamento per il Free Gaza Movement.

MENU’ DELLA SERATA:

Risotto ai Funghi Makluba (carne, riso con cavolfiore o melanzane) o Falafel (polpette fritte di ceci ) e Fool (purè di Fave)
Insalatona Mediterranea
Dolci Arabi
Vino (una bottiglia) ed Acqua
Caffè Rebelde

CENA DI FINANZIAMENTO PER IL FREE GAZA MOVEMENT
21 Novembre 2008– Ore 20.30 a Tavola!
Presso l’Ideal di Magenta - Viale Piemonte 10 (Dietro Stazione FS)

COSTO € 12
Prima bottiglia di vino gratis, seconda bottiglia a pagamento.

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12 novembre 2008

Israele ha bisogno di un esame di coscienza.

Il risultato delle elezioni politiche che si svolgeranno in Israele nel mese di febbraio del prossimo anno, unitamente a quello delle recenti elezioni presidenziali Usa, secondo molti commentatori dovrebbe portare importanti novità per il futuro del Medio Oriente.

Ci permettiamo di dubitarne, e in proposito riportiamo un articolo del giornalista arabo-americano George Hishmeh, pubblicato il 30 ottobre sul quotidiano on line Middle East Times e qui proposto nella traduzione offerta dal sito Arabnews.

Per limitarci al campo israeliano, Tzipi Livni, già ministro degli esteri nel governo Olmert e candidato premier di Kadima, in mesi e mesi di trattative con i Palestinesi non è riuscita a giungere ad alcuna intesa sui confini, ha negato ogni diritto al ritorno per i profughi palestinesi e non ha assunto alcun impegno su Gerusalemme.

Ancora in questi giorni, la Livni ha sentito il bisogno di distanziarsi dalle dichiarazioni di Olmert in occasione delle celebrazioni commemorative in onore di Yitzhak Rabin, durante le quali il premier uscente aveva sostenuto la necessità del ritorno di Israele ai confini del 1967 (salvi alcuni aggiustamenti territoriali) e di restituire ai Palestinesi i quartieri arabi di Gerusalemme est.

Il principale avversario della Livni alle prossime elezioni, il leader del Likud Benjamin Netanyahu, è peraltro da sempre, e con più forza, fiero avversario di ogni concessione territoriale e della divisione di Gerusalemme.

Trovandosi in campagna elettorale, ha lievemente “addolcito” le sue posizioni, sostenendo di non essere contrario a colloqui di pace con i Palestinesi, ma di ritenerli solo” prematuri”; naturalmente, di condividere il controllo di Gerusalemme non se ne parla neppure.

A ciò aggiungasi la crescente aggressività dei coloni e le difficoltà incontrate dall’esercito israeliano nell’evacuare persino singoli insediamenti colonici illegali, il che fa prevedere che un eventuale sgombero dei settlers dall’intera Cisgiordania costituirebbe questione tutt’altro che agevole.

In buona sostanza, per Israele è ora di scegliere tra la soluzione a due stati, con la creazione di uno Stato palestinese che conviva accanto ad un Israele “ebraico”, e quella (invero aborrita) di un unico stato binazionale con eguali diritti per tutti i suoi cittadini, siano essi Arabi o Ebrei.

E, tuttavia, ora come sempre, sembra continuare a prevalere la “terza via” che vede uno Stato ebraico e democratico, da una parte, e uno Stato dell’apartheid in Cisgiordania (ma che dico, in Giudea e Samaria), fatto di checkpoint, colonie, strade ad uso esclusivo degli Ebrei, brutalità, aggressioni, omicidi. Il tutto con la complicità degli Usa e la sorprendente inerzia e indifferenza per i diritti umani dei Palestinesi mostrati dall’Europa.

E’ ovvio che sarebbe necessario un intervento risoluto della comunità internazionale, e in primis degli Usa, per ”costringere” i due contendenti a fare la pace e a raggiungere un equo compromesso su tutte le questioni sul tappeto.
Ma, viste anche le sue prime nomine, dubitiamo che Obama sia il Presidente degli Usa capace di imprimere una tale svolta.

NECESSITA’ DI UN PROFONDO ESAME DI COSCIENZA
di George Hishmeh

Ora è il turno di Israele di andare alle urne. Ciò che vale per l’America vale anche per lo stato ebraico. Gli israeliani eleggeranno il prossimo febbraio un nuovo parlamento di 120 membri.

I risultati delle elezioni in Israele e in America sono destinati a condizionare gli eventi in Medio Oriente; speriamo davvero che i nuovi leader dei due paesi portino buone notizie sia per gli arabi che per gli israeliani, entrambi così a lungo traumatizzati.

Le elezioni israeliane sono state anticipate a causa del fallimento di Tzipi Livni, il premier incaricato, nel suo tentativo di formare un nuovo governo di coalizione. Come ministro degli esteri uscente, la Livni è stata scelta dal suo partito in una elezione primaria a settembre affinché prendesse il posto del primo ministro Ehud Olmert, macchiatosi di corruzione, il quale a seguito del fallimento della Livni potrà continuare ad assolvere le sue funzioni, probabilmente fino a marzo, se non fino ad aprile, quando si sarà insediato un nuovo governo.

A suo credito bisogna dire che la Livni ha denunciato le condizioni poste dal partito ultra-ortodosso ‘Shas’, che controlla solo 12 seggi nella Knesset (il parlamento), per accettare di aderire al suo governo. Il partito voleva maggiore assistenza pubblica per i suoi elettori, nonché un impegno della Livni a non fare concessioni sul futuro di Gerusalemme. I palestinesi vogliono invece tornare nella Città Vecchia occupata dagli israeliani, come previsto dalle risoluzioni delle Nazioni Unite.

Reagendo indignata alle “irragionevoli richieste economiche e politiche” del partito Shas, la Livni ha abbandonato il suo tentativo di formare un governo e ha optato per le elezioni generali. “Chiunque sia disposto a vendere i propri principi per il posto di primo ministro non merita di occuparlo”, ha detto.

La cosa strana in tutto questo è che il partito Shas, riconosciuto come “un elemento cruciale nella costituzione delle coalizioni di governo”, è stato un membro del governo Olmert tuttora in carica che, a sua volta, ha negoziato per giungere ad un accordo israelo-palestinese, dal momento che si era impegnato a farlo alla conferenza di Annapolis nel novembre dell’anno scorso.

L’altra faccia della medaglia della Livni non è molto promettente. La Livni ha avuto colloqui con il suo omologo palestinese, Ahmed Qurei, per quasi un anno, ma Akiva Eldar, editorialista di spicco del quotidiano israeliano Haaretz, ha lamentato il fatto che essa “non ha fatto progressi significativi in direzione di un’intesa, in nessuna delle questioni in ballo”. In realtà, ha aggiunto, “non ha presentato una mappa che definisse i confini dello stato, ha dichiarato che a nessun rifugiato sarà consentito di tornare in Israele, e ha evitato un dibattito serio su Gerusalemme”.

Un serio rivale della Livni alle prossime elezioni israeliane è Benjamin Netanyahu, l’aggressivo leader del Likud, che ha dichiarato la sua indisponibilità a condividere Gerusalemme con i palestinesi ed a concordare il reinserimento dei profughi palestinesi che hanno lasciato la loro patria. Netanyahu, che è stato fino a questa settimana uno dei principali candidati nella corsa per la carica di primo ministro, è anche noto per la sua determinazione a non rinunciare all’occupazione delle alture del Golan in Siria, e delle principali aree della Cisgiordania occupata.

I coloni israeliani in Cisgiordania, che si oppongono a qualsiasi evacuazione, e che sono circa 460.000, sono diventati ultimamente un grave problema per la sicurezza. Attaccano i loro vicini palestinesi, e anche la polizia e i militari israeliani, ogniqualvolta questi ultimi provano ad intervenire per fermare gli scontri. Questo è esattamente ciò che è accaduto ultimamente a Hebron. I coloni israeliani sono insorti contro le forze armate israeliane e hanno tentato di incendiare uno dei veicoli della polizia; poi hanno rivolto la loro rabbia contro i palestinesi, danneggiando più di 80 delle loro automobili, infrangendo le finestre delle abitazioni palestinesi, nonché profanando un cimitero musulmano.

Il quotidiano Haaretz, in un editoriale, ha affermato che il comportamento dei coloni, “non può che essere definito ‘terrorismo’, nel senso letterale della parola: la volontà di diffondere la paura e l’intimidazione”.

La Banca Mondiale, in un rapporto pubblicato la scorsa settimana, ha condannato la violenza e il vandalismo dei coloni israeliani poiché scoraggiano gli investimenti in Cisgiordania. Nei territori occupati l’economia continua a “boccheggiare, nonostante l’incremento degli aiuti internazionali”, e la Banca Mondiale dà principalmente la colpa ad Israele, perché continua a tenere i territori palestinesi in una morsa soffocante.

Di recente si sono verificati anche gravi scontri nelle città miste arabo-ebraiche in Israele, come è accaduto ad Acri. Più di 50 negozi e oltre 150 autovetture di proprietà ebraica sono stati danneggiati, e sono stati anche segnalati 11 casi di incendio doloso di abitazioni arabe. Altri incidenti hanno avuto luogo nell’area di Tel Aviv e Jaffa, e vi è un crescente timore di possibili scontri sanguinosi nella città divisa di Lydda/Lod.

Il Mossawa Center, che rappresenta i cittadini arabi in Israele, ha denunciato che la comunità araba, costituita da più di 1 milione di cittadini, è stata discriminata in termini di accesso agli alloggi, all’istruzione e ai servizi pubblici. Questa è una protesta comune, sostenuta da molti gruppi che difendono i diritti umani.

A prescindere dal fatto che i recenti tumulti abbiano contribuito o meno, i leader israeliani sembrano aver scoperto in ritardo di sei anni l’iniziativa di pace araba. Il presidente israeliano Shimon Peres ha sollevato la questione durante la sua recente visita al presidente egiziano Hosni Mubarak; e l’ex primo ministro Ehud Barak, ora ministro della difesa nel governo uscente, ha anch’egli espresso interesse per la proposta araba.

Tuttavia, resta da vedere quanto facciano sul serio i leader israeliani. In risposta alle allusioni israeliane di voler negoziare la proposta, il presidente egiziano ha ribadito con forza a Peres che l’iniziativa non è negoziabile, e che tutto ciò che Israele deve fare è raggiungere un accordo con i palestinesi, con i siriani e con i libanesi. Una volta che ciò sarà stato fatto, tutti i paesi arabi, come promesso nell’iniziativa di pace, potranno stabilire normali relazioni con Israele.

Tanto quanto i loro omologhi americani, gli israeliani hanno bisogno di intraprendere un profondo esame di coscienza, se vogliono che la pace si diffonda in Medio Oriente.

George Hishmeh è un giornalista arabo-americano residente a Washington; collabora con diversi giornali arabi in lingua inglese, come il Gulf News, il Jordan Times, ed il Daily Star; è stato presidente della Washington Association of Arab Journalists (WAAJ); è nato a Nazareth, in Palestina

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7 novembre 2008

Senza parole.

Il canale televisivo israeliano Channel 10 ha diffuso ieri un filmato che mostra alcuni soldati della brigata Golani, in servizio ad un checkpoint in Cisgiordania, nell’atto di umiliare un Palestinese legato e bendato.

Il filmato, girato dagli stessi soldati, mostra il Palestinese costretto a stare in ginocchio e a ripetere frasi suggeritegli con scherno dai soldati stessi, che ad ogni frase ripetuta dall’uomo (sovente corretto) ridono fragorosamente.

Una delle frasi recita: “La Golani ti porterà un pezzo di legno per ficcartelo su per il culo”.

Si rimane davvero senza parole di fronte a questo ennesimo episodio di umiliazione inflitta ad un pover’uomo del tutto inerme e indifeso.

E il fatto che il video sia stato girato dagli stessi soldati dimostra, di tutta evidenza, come essi siano fieri di una tale condotta riprovevole, come considerino “normale” umiliare e violare la dignità di un essere umano (che dovrebbe essere) loro pari.

L’ennesimo episodio che mostra il preoccupante degrado dei valori morali e il senso dell’onore proprio dei membri delle forze di occupazione israeliane, vero vanto di una nazione razzista e colonialista.

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5 novembre 2008

Uno strano concetto di tregua.

Nella notte tra martedì 4 e mercoledì 5 novembre l’esercito israeliano ha condotto un raid all’interno della Striscia di Gaza, uccidendo sei militanti palestinesi nel corso di alcuni attacchi aerei: si tratta della prima, seria violazione della tregua (Tahdi’a) che era entrata in vigore il 19 giugno di quest’anno.

Intorno alle 20:30 di martedì una unità di fanteria israeliana è penetrata per circa 400 metri all’interno della Striscia di Gaza in prossimità del villaggio di Wadi al-Salqa, a est di Deir al-Balah. I soldati di Tsahal hanno dapprima fatto irruzione in un abitazione appartenente a Mofeed Suleiman al-Rumaili, tenendo la famiglia in ostaggio dentro ad una stanza e utilizzando la casa come base operativa e, successivamente, hanno assediato un’altra abitazione adiacente, di proprietà di Hassan Suleiman al-Humaidi, intimando con un megafono ai 23 civili palestinesi che la abitavano di abbandonare l’edificio.

A quel punto, sono iniziati violenti scontri tra le truppe israeliane e alcuni militanti delle Brigate al-Qassam (l’ala militare di Hamas), nel corso dei quali il 32enne Mazen Abu Sa’da è stato ucciso da un missile lanciato da un aereo dell’aviazione israeliana, nel frattempo intervenuta in appoggio alla propria fanteria. A conclusione di questo primo raid, l’esercito israeliano ha provveduto a distruggere l’abitazione di al-Humaidi, a spianare circa 2.500 metri quadri di terreno coltivato e ad arrestare sei membri della sua famiglia, tra cui ben quattro donne.

Intorno a mezzanotte, in una azione separata svoltasi ad est del villaggio di al-Qarara, nei pressi di Khan Yunis, due missili sparati da un aereo della Iaf uccidevano altri quattro militanti palestinesi; infine, circa un’ora dopo, altri due missili lanciati all’interno dell’abitato di al-Qarara uccidevano il 21enne ‘Ammar Saleem Salhiya, portando a sei il numero complessivo delle vittime palestinesi di questo raid sanguinoso.

Da parte israeliana, sei soldati sono rimasti lievemente feriti dalle schegge di un colpo di mortaio palestinese, mentre alcuni civili sono stati ricoverati per shock a seguito del lancio di una trentina di razzi Qassam avvenuta nella mattinata di mercoledì in risposta al raid israeliano.

Ma perché questa improvvisa escalation di violenza? Perché questa ennesima aggressione e questo ennesimo crimine da parte dell’esercito israeliano?

Secondo quanto riferito dallo Yedioth Ahronoth, all’uscita da una riunione tenuta mercoledì mattina nell’ufficio del ministro della difesa israeliano Ehud Barak, il suo vice, Matan Vilnai, avrebbe dichiarato che “Israele non intende violare la tregua, che ha portato la calma nelle comunità del Negev” ma che, tuttavia, “il raid di martedì notte si è reso necessario per prevenire un rapimento o un attacco terroristico all’interno di Israele”.

Un ufficiale della sicurezza israeliana, citato in forma anonima dal quotidiano, ha ulteriormente precisato che l’operazione è stata decisa a seguito di non meglio precisate informazioni di intelligence, ma che non vi è nessuna intenzione di andare oltre: “se i gruppi terroristici mantengono la calma, noi faremo lo stesso; se no, saremo costretti a rispondere di conseguenza”.

Che bravi, che responsabili!

Detta in soldoni, dunque, la posizione di Israele è la seguente: abbiamo accumulato una tale quantità di intelligence (e non importa quanto veritiera sia o da quale sottoscala dello Shin Bet provenga o con quali mezzi sia stata “ottenuta”) che siamo praticamente certi che Hamas ha intenzione di compiere un’azione spettacolare all’interno del territorio israeliano, sia essa il rapimento di uno o più soldati (opzione ritenuta più realistica) ovvero un “classico” attentato terroristico.

Siamo stati, quindi, “costretti” ad agire, ad entrare nella Striscia di Gaza e a massacrare sei militanti cattivi che non volevano lasciarci passare, ma non abbiamo nessuna intenzione di rompere la tregua e, pertanto, se voi Palestinesi non reagirete e ve ne starete buoni noi faremo altrettanto.

Una strana concezione di tregua, questa, non c’è che dire!

Laddove, peraltro, va notato che la “tregua”, in questi mesi, non ha impedito all’esercito israeliano di praticare nella West Bank il suo sport preferito, l’assassinio o il ferimento (se va male…) di civili inermi, ivi compresi, in questi ultimi giorni, un agricoltore ultrasessantenne e una ragazzina all’interno della sua scuola.

E, soprattutto, la “tregua” in vigore dal 19 giugno non ha in nulla alleviato le sofferenze e i disagi di un milione e mezzo di Palestinesi della Striscia di Gaza, condannati a subire un embargo e una punizione collettiva del tutto illegali e immorali.

Per non dilungarci ancora su cose dette più e più volte, basterà qui ricordare:
il totale esaurimento di 94 farmaci essenziali (rispetto ai 63 di metà settembre e ai 48 di metà agosto);
la morte di ben 255 ammalati (dal giugno 2007) impossibilitati a ricevere le cure necessarie e non disponibili negli ospedali di Gaza (l’ultima vittima è stata un bambino di 1 anno e mezzo);
la continua rimozione da parte di Israele di beni essenziali dalla lista delle merci di cui è ammessa l’entrata nella Striscia: l’ultimo caso è rappresentato dall’esclusione da detta lista di tessuti e scarpe perché “potrebbero essere usati per produrre uniformi militari” (incidentalmente, siamo in inverno…);
l’insufficiente o del tutto mancante rifornimento di combustibili da parte di Israele rispetto alle necessità degli abitanti di Gaza: nella settimana compresa tra il 22 e il 28 ottobre, Israele ha consentito l’ingresso nella Striscia di 690.240 litri di gasolio (33% del fabbisogno settimanale), 1.325.640 litri di carburante industriale (42% del fabbisogno), 677.000 tonnellate di gas da cucina (39% del fabbisogno) e 0 (zero) litri di benzina (OCHA – Protection of Civilians Weekly Report n.283).

Si potrebbe continuare all’infinito citando le continue interruzioni nell’erogazione dell’energia elettrica o la mancanza di parti di ricambio per gli apparecchi ad uso medico, ma sarebbe inutile.

Basterà in proposito citare le parole di Mary Robinson, ex Alto Commissario dell’Onu per i Diritti Umani, che in una intervista alla Bbc sulla situazione a Gaza ha avuto modo di osservare: “la loro intera civiltà è stata distrutta, non sto esagerando; è quasi incredibile che il mondo non si preoccupi” mentre avviene quella che ha definito “una scioccante violazione di un numero così elevato di diritti umani”.

Ma ha davvero ragione Mrs. Robinson, il mondo non si preoccupa dei Palestinesi e delle disumane condizioni di vita in cui sono costretti a vivere da quel vero e proprio Stato-canaglia che è Israele.

E per fortuna che è in corso una tregua…

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